di Eva Hoffmann
Nella sala da pranzo abbiamo un planisfero, ogni volta che il mio sguardo incontra la cartina calcolo quanto in questo momento mi trovo distante da quel piccolo stivaletto chiamato casa e traccio una traiettoria immaginaria: mi trovo più vicina all’Antartide che all’Europa. Ho vissuto la maggior parte della mia vita in un paese tra i più insignificante del Regno della Nebbia, pianura di terra piatta all’orizzonte, strade dritte per chilometri da far invidia a qualsiasi autostrada. Mi sveglio e vivo su un’altopiano, nella seconda città più grande del Madagascar, la mia casa in fondo ad una discesa, ginocchia che tentennano scendendo e muscoli che lavorano salendo. Perdo il conto di quanti dislivelli affronto nell’arco di una giornata, curve a gomito su strapiombi ed un panorama caotico e armonioso allo stesso tempo, case spalmate sulle colline a perdita d’occhio e macchie di terra rossa e di verde brillante. Sono su un’isola in mezzo all’Oceano Indiano, mi affascina ogni volta che lo penso e ho sempre avuto paura del mare aperto. “Oceano” è una parola ancora più grande e profonda di “mare aperto”, eppure mi da un senso di pace. La mia fronte perde la pelle dalla scottatura della settimana scorsa, è estate, il sole mi brucia la pelle e mi lascia il suo segno ogni giorno di più, ma non appena arriva un ciclone respiro a pieni polmoni il profumo di questa terra bagnata, ineguagliabile. Mi godo il concerto delle giganti gocce che toccano le superfici delle diverse cose fuori dalla mia finestra: tettoie di alluminio, il cofano della macchina, le foglie, i sassi, i secchi di plastica, registro ogni singolo rumore e respiro la pace sotto la felpa che per questo momento nasconde la mia pelle bruciata: silenzio, la pioggia è in scena. Oceano, colline, salite e discese, per il mio calendario è inverno ma qui mi brucio la pelle, la stessa pelle che sta a contatto con lo sporco, l’inquinamento e le mani di persone con storie così tanto diverse, difficili e stravolte rispetto alla mia.
E’ solamente dopo questi primi quattro mesi che sento di poter dire di iniziare a capire qualcosa di questo mondo che per i miei occhi da occidentale si mostra sottosopra. Sottosopra rispetto all’immaginario comune di quest’isola ed alla vita che mi sono lasciata a così tanti chilometri dietro le spalle. Mi trovo nella seconda città più grande del Madagascar ma, allo stesso tempo, la peggiore e nella provincia più povera di tutta l’isola. Quando si nomina il Madagascar vengono subito alla mente meravigliose spiagge, la maestosità della natura e una terra così ricca e rigogliosa da fare invidia a tutti gli altri stati del mondo. Vero, ma è bene sottolineare come al centro di tutto questo, sull’altopiano lontano dalle coste esista una realtà come quella di Fianarantsoa. La mia vita si svolge lontana chilometri da ogni costa e mare, tra le fumate nere delle macchine scassate e dei pulmini che fanno da autobus cittadini, tra le centinaia di bambini che vivono per le strade, tra la gente che dorme costruendo accampamenti lungo i marciapiedi e che vaga sbronza alla luce del giorno, tra chi mendica e chi vende frutta e verdura per terra nel caos del vociare e dei clacson. Alle Classe Rapide, il centro diurno in cui lavoriamo, tutti i giorni si vive in relazione con i 115 bambini di strada che lo frequentano. Qui si cerca di contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico, garantendo ai bambini ed ai ragazzi un luogo protetto in cui passare le giornate, per giocare insieme, essere avviati al contesto scolastico e, non per ultimo, tre pasti caldi al giorno.
Il confronto che un occidentale può fare con qualsiasi realtà scolastica “normale” non regge perché la lezione che si impara tra queste quattro mura è più preziosa. I bambini imparano che hanno il dovere ed il diritto di studiare, di giocare e sentirsi bambini al di là del lavoro, dell’elemosina o della vita da adulti che molti tornano a vivere per la strada una volta finita la giornata.
E’ una vita complessa, che a me prende il cuore e il cervello, la mia testa lavora dalla mattina alla sera e pensa e rielabora in continuazione tutto quello che mi succede e che mi succede intorno. Qui bisogna sapersi mettere in discussione, accettare di non essere sempre capaci di capire il perché delle cose, accettare di sentirsi travolti dal tornado interiore di emozioni contrastanti che si vivono tutti i giorni, accettare di uscire dalla propria zona confort e ritrovarsi stupiti dall’apprezzare così tanto cose che nella vita lasciata in Europa si danno per ovvie e scontate, anche ad esempio quando si tratta di una doccia fredda alla luce di una candela a fine della giornata.
In questi pochi mesi da una parte mi sono resa conto di quanto sia povera la gente che vive nel mio Occidente, ad essere convinta di avere già tutte le risposte nelle proprie tasche, dall’altra mi rendo conto di quanto sia ricca di forza la gente che non ha niente ed affronta la vita che gli è stata riservata in questo posto. Di quanta forza e resilienza ci sia dentro ai piccoli corpi dei bambini che vivono per strada, più autonomi e capaci di arrangiarsi di chiunque altro, già adulti in corpi da piccoli.
Vedo cose che lontane da qui parrebbero assurde ed incredibili: è normale che al pronto soccorso non ci siano ossigeno e sangue a disposizione, che non esistano medici capaci di mettere una flebo o leggere un elettrocardiogramma, che una signora deceduta venga caricata in macchina stesa nei sedili posteriori in braccio ai familiari. Non stupisce che ragazze madri o donne adulte vivano a braccetto con le botte dei loro uomini, che la gente si rovini bevendo toca, l’alcolico illegale di produzione locale. Non crea troppo scalpore che un bambino di quattro anni sparisca dalla strada per cinque giorni senza aver lasciato traccia, non stupisce che tanti altri bambini così piccoli vivano giocando con la spazzatura della strada, correndo a zig zag tra il fumo delle auto, la puzza dell’alcol di chi dorme con loro sul marciapiede, i piedi nudi che saltellano nel fango mischiato agli avanzi marci del mercato e ai cani randagi dalle costole in vista che vagano in cerca di cibo.
Quattro mesi di vita come un lungo incontro di pugilato, pugni in faccia che si alternano alla stretta delle braccia al collo dell’altro. Ogni pugno uno schianto, ogni abbraccio la felicità più pura. Un incontro di pugilato che si trasforma pian piano in danza, ritrovamento dell’equilibrio ed armonia tra amore ed odio, tra due mondi tanto distanti quanto ora incastrati l’uno nell’altro. Il dolore resta ai piedi, a ricordare che mai si prova la gioia più vera senza traccia di fatica, anche e soprattutto nella più meravigliosa delle danze.
Per quest’anno ho scelto me, ho scelto l’altro e ho scelto il mondo, ho scelto di essere felice e piena di vita, scomoda, sporca e stanca fin nelle ossa. Ho scelto di sentirmi assolutamente impotente ed importante allo stesso tempo, felice nel più profondo ed arrabbiata nel più profondo. Occhi negli occhi con quello che vivo, in questa mia nuova vita quotidiana che mi sta arricchendo così tanto registro e raccolgo dentro me ogni cosa e sogno un giorno di poter condividere tutto quanto con più occhi possibili, facendo capire in piccola parte cosa esiste al di là della nostra vita perfetta e confortevole: le immense meraviglie e i profondi drammi del mondo degli “ultimi”.
Eva Hoffmann