di Sara Orsignola
Condividiamo la bellissima testimonianza di Sara, volontaria presso Omeo Bon Bon, pubblicata anche sul sito dell’associazione IBO Italia.
Fra 3 settimane torno in Italia e il sentimento che prevale oggi è sgomento.
La mattinata è iniziata nel tram tram generale: mi sveglio alle 5,30 fra le voci dei bimbi della casa famiglia, faccio colazione e via che si parte per accompagnarli a scuola. Sembra una giornata serena come tante altre, giusto un po’ di foschia e pioggerella. Nella tarda mattinata Patrick, ragazzino di 13 anni, si presenta al centro di Omeo Bon Bon dopo aver fatto la radiografia ai polmoni. Lo accompagniamo dal dottore.
Non lo vedevamo da 3 giorni e in questo lasso di tempo gli occhi si sono spenti, il suo volto è scavato, trascina il passo e fatica a stare in piedi.
Andiamo all’ospedale pubblico e qui inizia lo sgomento, lo sconcerto, il sentimento di impotenza e d’ingiustizia.
Il dottore guarda la lastra, sospetta tubercolosi.
Patrick resta fuori al freddo per più di un’ora in attesa di essere visitato. Dopo la prima visita ci mandano in farmacia per acquistare i medicinali. Compriamo cotone, alcool, siringhe, acqua fisiologica, potassio: tutto deve essere pagato, anche la carta dello scontrino. Per far analizzare il sangue ci inviano fuori dall’ospedale, in un laboratorio privato, mentre per i risultati della tbc dobbiamo attendere l’indomani.
Torniamo in pediatria e troviamo Patrick ricoverato: è sdraiato su un lettino e aspetta la mamma che è andata a casa a prendergli la coperta, il cuscino, la salvietta (non presenti in ospedale) e un cambio di vestiti. È sporco perché ha la dissenteria, ma non si può pulire perché in reparto non c’è acqua corrente e non c’è personale addetto. Solo quando tornerà la mamma verrà pulito da lei.
Dobbiamo ancora pagare il ricovero, cioè il letto di degenza, il kit sanitario e il triage.
Poi ci accordiamo con una gargotterie esterna all’ ospedale (piccola locanda dove vendono riso con accompagnamento) dove la mamma andrà a prendere il cibo al bambino (ovviamente l’ospedale non ha una mensa).
Alle 5 di sera, dopo essere stati rimbalzati a destra e a sinistra, dopo essere tornati in farmacia a comprare altri farmaci, salutiamo Patrick. La mamma è potuta restare tutto il giorno con il figlio perché noi ci siamo occupati dell’iter burocratico, ma se lui fosse stato da solo? Se qui una persona malata non avesse né parenti né soldi?
Sgomento. La famiglia di Patrick è una famiglia povera, il padre spinge carretti e guadagna poco più di un euro al giorno. A sera le spese mediche sono circa 100.000 ariary, quello che il papà guadagna in un mese. Domani ci saranno da comprare i farmaci che Patrick usufruirà il giorno stesso e si dovranno pagare altre analisi.
Sgomento. Perché la sera ci chiamano dicendo che il bambino ha la febbre alta e deve prendere altri medicinali. In quel momento la mamma non ha i soldi e noi siamo impossibilitati ad andare all’ospedale, il farmacista fa il favore di anticipare i farmaci a condizione che vengano pagati entro le 7 del mattino seguente, ma è un favore.
Se non avesse fatto ciò, se i genitori di Patrick non si fossero rivolti a noi, se noi non ci fossimo mobilitati: cosa sarebbe capitato? Sarebbe capitato quello che capita alla maggior parte dei bambini poveri qui in Madagascar.
Se non paghi non ti visitano, non fai le analisi, non ti danno i farmaci e muori. Punto.
Queste cose le conosco, quante volte ne ho sentito parlare, le ho già viste in Perù, però mi lasciano sempre sgomenta.
Oggi nel vedere il volto di Patrick, vivendo tutto ciò in prima persona, mi sono resa conto di come le cure (fra l’altro discutibili) siano un privilegio. Sapere che tanti bambini che sono per strada e che non conoscono associazioni a cui rivolgersi, semplicemente muoiono perché i genitori non hanno i soldi per curarli mi lascia in uno stato ovattato di tristezza e di sconforto, d’impotenza.
Ma stasera Patrick è in ospedale, ha la possibilità di essere curato e allora per lui oggi c’è speranza, per lui si può ancora sperare. E intanto fuori continua a piovere.
Sara Orsignola